Biella

Lavoro in proprio e maternità

Vi sono ragazze che hanno sentito una forte passione per una materia, un’arte, una capacità. Vi sono ragazze che, una volta diventate adulte, hanno saputo trasformare le loro vocazioni e le loro abilità in un mestiere.

Spesso ci sono voluti anni di impegno, di tirocini, di studio, di porte in faccia e di qualche piccola gioia da coltivare.

La ricerca di un lavoro, di una fonte non solo di autosussistenza (cosa spesso non da poco), ma anche di soddisfazione, le ha portate a darci dentro, a mettersi in gioco, a volte partendo da un lavoro in una azienda per poi fare il grande salto e provare a sperimentarsi con un lavoro in proprio.

Poi ad alcune di queste ragazze cresciute è capitato di arrivare a sentire un desiderio di maternità. Ad altre è capitato di ritrovarsi a prendersi cura di figli che seppur non propri, rappresentano un pezzo di cuore: i figli del compagno, i nipoti, i figli di un amico o un’amica cara che, per un motivo o per l’altro, hanno bisogno di cure speciali.

E se si parla con queste donne che hanno scelto di lavorare con passione e di occuparsi dei loro figli, siano essi di sangue o di cuore,  donne che si trovano in una fascia di età che va dai 30 ai 45 anni circa, ci si può imbattere in racconti che spesso si assomigliano. E che parlano di fatica: la fatica di  riuscire a star dietro a tutto, di presidiare tutto, di tenere a mente tutto dal lavoro, alla coppia, ai figli appunto.

Come fai a gestire tutto?

Negli anni ’80 la sociologa francese Monique Haicault, in un articolo intitolato “La gestione ordinaria della vita in due” parla per la prima volta del concetto di Charge Mentale, che potremmo tradurre per semplificare con carico mentale. Tale concetto ha continuato a circolare fino all’arrivo negli anni 2000 di Emma, blogger francese, con il suo fumetto “Fallait domander”, bastava chiedere.

Il carico mentale di cui parla Emma non è un generico stress da lavoro, ma è il peso di tutte quelle acrobazie mentali, invisibili, costanti e logoranti che, all’interno della famiglia e della coppia, sono più sovente a carico delle donne, le quali tendono ad avere un occhio di riguardo per il benessere di tutti e per il funzionamento efficace della casa.

La charge mentale non corrisponde a fare tutto, bensì a pensare a tutto.

Oggi senza alcun dubbio gli uomini sono molto più coinvolti di un tempo nella gestione delle faccende domestiche e nella cura dei figli. Oggi un papà porta il suo piccolo a fare l’acquaticità in piscina, mentre fino a non molti anni fa la cura dei figli era affidata prevalentemente alle madri.

Ma, nella maggior parte dei casi, è assai probabile che vi sia una madre che ha preparato la sacca della piscina, predisposto la merenda, magari sana, per la fame post-piscina e che avrà pensato al pasto per quando padre e figlio/a rientreranno a casa.

Allora questo esempio può mostrare che quando si parla di carico mentale, ci si riferisce a quelle preoccupazioni e a quei pensieri circa le mansioni domestiche ed educative che permangono costanti in un angolo della mente, anche quando si sta facendo altro.

È una vigilanza costante e pervasiva, cioè che pervade la mente e prosciuga energie.

Fattore genetico e fattore ambientale

Nell’eterna diatriba fra fattore genetico e fattore ambientale, da psicoterapeuta concedimi di pensare che a fronte di un temperamento con cui ogni bambino nasce e che rende ogni neonato diverso dall’altro fin dalle prime ore di vita, esiste poi una cultura familiare in cui il piccolo cresce e si sviluppa che ha una grossa influenza sulla sua vita.

Mi sembra alquanto improbabile che una bambina, futura donna, nasca per natura con l’irrefrenabile pulsione a lavare i piatti o a stendere il bucato. Così come penso che un uomo non nasca con l’incapacità a pensare più cose contemporaneamente.

Credo sia ora di smettere di scherzare sull’incapacità dei maschi di essere multitasking, non solo perché è denigrante e sminuente nei confronti di compagni, padri, fratelli, amici, figli, ma anche perché così facendo si alimenta un alibi e si diventa complici di una scusa socialmente accettata.

Nella mia pratica professionale mi capita spesso di ascoltare racconti di pazienti nella fascia d’età dai 30 anni in avanti che riportano di quando erano piccole: loro dovevano rifarsi il letto mentre il loro fratello maschio no.

Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, nella puntata dedicata alla madre della sua trasmissione Lessico Famigliare andata in onda su RAI3, afferma che l’essere madre non deve uccidere l’essere donna e che una donna deve rimanere tale anche quando è diventata madre, mantenendo i suoi desideri al di fuori della famiglia, i suoi progetti lavorativi/professionali, le sue ambizioni e che questa non è una forma di egoismo o una mancanza di cura.

Perché una madre che dedica l’intera sua vita a un figlio è una madre fagocitante, che toglie libertà non solo alla donna ma la toglie anche al figlio, che non può sperimentare l’assenza e quindi il desiderio (quand’è che si desidera qualcosa? Quando questo manca) e che si sente in colpa se si allontana da chi ha fatto di tutto per lui.

Ma se al contempo non si vuole essere quelle mamme-manager che destinano le cure dei figli a tate e babysitter, riservando loro solo qualche distratta cura serale, allora cosa è possibile fare?

Cosa si può fare per non sentirsi fallite o incapaci o sempre un po’ a metà?

È davvero difficile rispondere a questa domanda e credo che possano esserci molteplici risposte. Una fra queste può essere quella di creare rapporti di coppia paritari.

E pensare che la gestione domestica e famigliare è un gioco di squadra dove, però, non c’è un capitano, ma solo ruoli differenti e magari modi di giocare diversi. Una dimensione dove l’uno lascia spazio all’altro di fare, pianificare e gestire le cose come gli viene e non come l’altro vorrebbe.

Si è alla pari, nella esecuzione, nella modalità e nella decisione.

E le madri, cioè persone che si prendono cura, hanno un compito non solo educativo, ma evolutivo fondamentale: insegnare ai loro figli, siano essi di sangue o di cuore, la parità.

Ma non con le parole, o almeno non solo.

Un esempio da cui imparare

Benjamin Franklin diceva: “Dimmi e lo dimentico. Insegnami e lo ricordo. Coinvolgimi e lo apprendo”.

I figli osservano i loro genitori e gli adulti che popolano e arricchiscono le loro vite. Un bambino non dirà grazie perché gli si ripete di dire grazie, ma perché vedrà i suoi adulti di riferimento ringraziare ogni volta che ricevono una gentilezza.

Allora credo che le madri di figli maschi abbiano un compito di grande responsabilità sociale: insegnare ai loro figli, siano essi di cuore o di sangue, a costruire e vivere rapporti alla pari.

E credo che le madri di figlie femmine abbiano un compito di grande responsabilità sociale: insegnare alle loro figlie, di sangue o di cuore che siano, a costruire e vivere rapporti alla pari.

Mostrando loro come si può fare.

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Francesca Tanini

Sono Francesca Tanini, Psicologa e Psicoterapeuta Dinamica individuale e di gruppo. Ho una parola chiave che guida come un mantra il mio lavoro e la mia vita: è autenticità. E ogni giorno mi impegno a ricercarla e a farla emergere in me, in quello che faccio e in ogni relazione che intraprendo, terapeutica o personale che sia.

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