Quanti tipi di violenza esistono?

 

  • In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne uniamo  le nostre voci in un articolo corale. 

Abbiamo voluto allargare un po’ il concetto di violenza pensando sì a quella più brutale e fisica ma anche a quella più sottile e subdola: quella violenza che si nutre di stereotipi e frasi fatte, di malignità, di consuetudini datate e vecchi retaggi sociali.

Eccoci ognuna con la propria riflessione sperando, nel nostro piccolo, di contribuire al cambiamento, continuando a batterci per alzare il livello di attenzione e perché non avvengano più episodi di revenge porn, violenza domestica, stupri, insulti gratuiti o di abusi sul lavoro.

Hai conosciuto tuo marito prima di sposarlo?

La violenza sulle donne è un argomento così vasto che quando con la Redazione abbiamo deciso di impostare questo articolo mi sono detta: ‘E io che scrivo?’ poi ho cercato di guardarmi intorno e leggere la realtà che mi circonda. 

Da luglio vivo a East London in un contesto culturalmente e linguisticamente molto più eterogeneo di quello a cui ero abituata in Italia, si vocifera che a Londra ci abitino quasi 8 milioni di persone e si parlino 300 lingue diverse. 

In questo marasma ci sono anch’io che frequento un corso d’inglese per stranieri, qui ho conosciuto N. una ragazza pachistana di 25 anni dal volto sorridente e dallo sguardo curioso. Un pomeriggio mi ha chiesto di fare un tratto di strada assieme durante il quale abbiamo parlottato un poco: ‘Marie Louise sei sposata?’ ‘Sì, sono sposata – rispondo io con tono scherzoso – con un uomo bellissimo con dei luminosi occhi azzurri…’ ‘Hai conosciuto tuo marito prima di sposarlo?’ Silenzio e un pensiero: di’ qualcosa, di’ qualcosa, cazzo. ‘Sì, N. e tu?’ ‘Sì, anch’io, è mio cugino.’ Silenzio. 

L’ho abbracciata e abbiamo cambiato discorso. Questa città mi porta delle storie che, in silenzio, ascolto.

Marie Louise Denti

L’architetto è un lavoro prettamente da uomo!

Questo pensiero è stato in passato ed è ancora oggi, lo stereotipo che purtroppo facilmente si incontra nel mio settore. La cosa assurda è che spesso anche molte donne si stupiscono del fatto che mi possa occupare anche di direzione lavori. Sconvolge forse il fatto di essere in cantiere con uomini ai quali dover indicare come procedere nei lavori? Non l’ho mai capito sinceramente! Se già tra di noi non siamo solidali e stereotipiamo un dato lavoro rispetto ad un altro, come possiamo pretendere di raggiungere la parità

Un’altra situazione che vivo praticamente ogni giorno è sentirmi dare della SIGNORA e non dell’ARCHITETTO. Ho studiato e mi sono abilitata all’esercizio della professione al pari di un qualsiasi mio collega uomo, e perché mai dovrei accettare di essere chiamata SIGNORA e non ARCHITETTO sul luogo di lavoro? 

Oppure sentirsi chiamare ARCHITETTA, che nella realtà non è errato, assolutamente, ma è come viene utilizzato che mi innervosisce… in senso dispregiativo o “riduttivo” e questo mi fa rabbia.

La cosa strana è che spesso, presa alla sprovvista, non correggo il mio interlocutore, sbagliando per prima, perché in questo modo gli consento di reiterare sul suo errore. Mi sono imposta che questa cosa non devo e non posso più accettarla, per rispetto mio e delle altre donne che come me subiscono questo tipo di “atteggiamento”.

Valeria Conicella

La coperta è sempre troppo corta

Girovagando fra un social e l’altro, mi imbatto in una vignetta che recita così: “Il problema è che tutti si aspettano che le donne lavorino come se non avessero figli e che crescano i figli come se non lavorassero”.


Già…

Per una donna oggi che lavora e ha figli, questa contraddizione in essere o questa fantasia di onnipotenza, per chiamarla con termini vicini alla mia professione di psicoterapeuta , è quotidiana e costante. Si tratta di una pretesa violenta perché aggressiva, di cui siamo vittime e allo stesso tempo carnefici: ce la infliggono “gli altri”, ma ce la infliggiamo anche noi stesse. La società in cui viviamo è intrisa culturalmente di tale pretesa e di tale aspettativa. Che è irrealistica e irrealizzabile.

La coperta è sempre troppo corta e qualcosa si deve tagliare.

Così milioni di donne abbandonano le loro velleità di carriera, lavorano part-time, si concentrano sulla famiglia e sulla casa, trasformano il lavoro in un’entrata mensile (e per carità, ci mancherebbe!), perdendo così il piacere legato al lavoro e allo sviluppo professionale. E lo fanno perché la famiglia è fatta di persone che hanno bisogno di cure e la casa è il luogo che le ospita, le accoglie, le protegge.

Ma è altrettanto costosa (in termini emotivi e non solo)  l’altra scelta possibile: quella di affidare i propri figli alla cura di tate, zii, babysitter, nonni che li portino a scuola al mattino e li vadano a recuperare al pomeriggio e stiano con loro fino a quando una donna arriva a casa, ormai a energie quasi azzerate, e tenti di viversi almeno un paio d’ore i suoi figli e magari il partner, nella casa che tanto si è desiderata e che così poco viene vissuta.

C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo: la pretesa che una donna debba scegliere fra affetti e sviluppo professionale.

Francesca Tanini

Un avanzamento di carriera?

Mentre dedicavo sere e week-end al lavoro dei miei sogni, avevo un impiego di responsabilità in una grande azienda. Ero referente di una sezione territoriale, avevo un mio ufficio e seguivo personalmente le aziende nei loro progetti e attività.

Quando rientrai dalla maternità, non avevo più nemmeno una sedia; ne recuperai una in magazzino per sistemarmi nella vicina scrivania, senza telefono e con un PC malridotto.

Stavano cercando di dirmi qualcosa?!

Sentii addosso tutto il peso e il senso di colpa per la mia assenza per congedo, l’umiliazione di veder spazzati via anni di impegno e dedizione, ma fui subito distratta da una lusinghiera proposta: un posto di responsabile in sede centrale.

Declassata al rientro in ufficio e premiata con un avanzamento di carriera?

Qualcosa non mi tornava, confusa e mortificata, ignorai ipotesi cospiratorie a ridosso del contratto in scadenza (che tempismo!), ma notai una significativa differenza.

Anche il mio sostituto aveva una figlia piccola, ma per lui non era un problema accettare la trasferta a km di distanza, non occupandosi in prima persona del suo accudimento. Per me, invece, significava rinunciare all’allattamento e impattare duramente sulla qualità della mia vita.

Ho optato per la strada delle contro-proposte. Il trasferimento era sostenibile facendo orario continuato, azzardai anche la possibilità (tanto futuristica allora, quanto necessaria oggi) di lavorare da remoto, dall’ufficio nella mia città, per seguire le aziende di altre zone.

Non accettarono niente, l’unica opzione possibile era alle loro condizioni, il preludio di un contratto che già sapevano di non rinnovare.

Ripensandoci, avrei dovuto denunciare, ma non mi pento di aver scelto di vivere quella situazione di discriminazione e umiliazione come il segnale di tempi maturi per un cambiamento positivo. Ho, infatti, colto l’occasione per mettermi in proprio e costruire il mio futuro professionale adattandolo ai miei valori e alle mie esigenze per dare forma alla mia visione.

Carolina Masieri

Dovevi aspettartelo che…

C’è un commento ricorrente quando si parla di violenza sulle donne riferito, ovviamente, alla vittima: “dovevi immaginare che” “te lo dovevi aspettare”. Te lo dovevi aspettare che mandando un video privato al tuo fidanzato l’avrebbe reso pubblico, rovinando la tua reputazione e la tua carriera per sempre. Dovevi immaginare che, andando ad una festa con droga e alcool, ti avrebbero chiusa in una stanza e violentata per ore. Se ti metti la minigonna dovresti immaginare di ricevere commenti non richiesti per strada o toccatine innocenti in ufficio.

O quando pensi di dare un senso alla tua vita andando in Africa ad aiutare, come è possibile che non ti sia venuto in mente che potessi essere rapita?

Quando la vittima è una donna diventa immediatamente una sprovveduta, una che va incontro volontariamente al pericolo e che non sa controllare le sue azioni.

Una soluzione forse c’è, ed quella di insegnare alle nuove (ma anche alle vecchie) generazioni ad avere il rispetto che entrambi i sessi meritano, a fare attenzione alle parole e a non aspettarsi comportamenti diversi se parliamo con una donna o con un uomo. A non rimproverare le bambine dicendo “una signorina queste cose non le fa/dice” o evitare di dire a un bambino particolarmente sensibile di “non fare la femminuccia”. 

Laura Pezzutto

Io alla tua età avevo già quattro figli!

Quando si pensa alla violenza sulle donne si pensa a un aguzzino, uomo. E succede che persino La Repubblica scada nel post sessista dichiarando che “la gelosia non uccide, gli uomini sì”, per poi rendersi conto che, in effetti, solo alcuni uomini sì.

E che dire, invece, della violenza che arriva dalla donne? Sì, perché secondo me c’è tanta, troppa cattiveria anche tra di noi. Quel commento pungente sul vestito di Tizia, “Guarda come sta male!” O sul rotolino di ciccia in più di Caia, “Ma non si vergogna?!”

C’è un ricordo che ancora mi brucia: qualche anno fa una cassiera del supermercato mi ha chiesto se volessi dei pupazzetti in regalo per i miei figli, dando per scontato che io di figli ne avessi. Io le ho risposto, di no, che figli non ne avevo ancora. Le ho risposto così, ingenuamente, senza dar troppo peso alla cosa. Peccato che poi lei mi abbia incalzata chiedendomi quanti anni avessi (risposta: intorno ai 30) e dicendomi che lei, alla mia età ne aveva già quattro di figli.

E io, anziché chiederle se i suoi figli fossero tutti simpatici (per usare un eufemismo) come lei ho pure pensato di giustificarmi! Eh, il lavoro, le incertezze, la precarietà…

Ho ritirato la mia spesa atterrita e mi sono avviata verso la macchina. Solo dopo sono arrivati il nervoso e la rabbia. Verso di lei, cafona e inopportuna, ma anche verso me stessa, perché si sarebbe meritata una risposta a tono. Perché innanzitutto non è scontato che una voglia (o possa) avere dei figli e secondo poi, se non li ho, saranno ben affari miei!

Alla faccia della solidarietà femminile.

Francesca Savino

Non sei più in grado di soddisfare le nostre esigenze

Quando penso alla violenza sulle donne, penso che la gente non sappia davvero quante sfumature siano presenti nella vita di ognuna di noi, ogni giorno.

Molte sfumature sono così lievi, che ormai fanno parte del nostro modo di pensare e quindi ci sentiamo giustificati dal giudicare attraverso quei filtri. Lo vediamo ogni giorno: commenti aggressivi sull’aspetto fisico delle donne, sull’abbigliamento, sulle tinte che non si fanno o sui peli che non si tolgono. Critiche continue su cosa fanno, cosa scelgono di diventare, chi scelgono di amare.

Personalmente sono stata spesso vittima di etichette faticose da sopportare. Dal fatto di non aver mai aderito ai canoni di bellezza condivisi. O dalle scelte alimentari o professionali. All’inizio della mia carriera i grafici erano maschi, ad esempio. I miei colleghi prendevano il 30% in più in busta paga, e non sto esagerando.

Quando sono rimasta incinta ero felice, ma preoccupata. Ero all’inizio della mia carriera da libera professionista e i miei clienti erano pochi e non ancora allineati al mio sentire. Ho atteso l’ottavo mese per dichiararlo sui social. Alcuni miei clienti se ne sono andati dicendo che non sarei più stata in grado di soddisfare le loro esigenze. Questa è una violenza sottile. E un po’ me ne vergogno come se fosse colpa mia.

Non mi sono goduta al 100% un momento meraviglioso. Però è stata utile. Mi ha fatto capire con chi avere a che fare e con chi no. Mi ha fatto capire che ci sono ancora passi da fare per migliorare la condizione delle donne lavoratrici. E come si superano queste violenze? Con un lavoro su noi stesse, ma anche entrando a far parte di reti, come la nostra, che non solo danno risposte, ma danno sostegno e supporto. 

Eugenia Brini

Ognuna di noi nel suo percorso professionale e personale ha avuto una qualche forma di discriminazione/violenza, questo ci fa capire come siamo ancora lontani dalla parità ma anche quanto abbiamo voglia di lottare e migliorare.

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